L’arte, disse una volta qualcuno, è uno spazio protetto dove è possibile affrontare conversazioni difficili. Il dialogo tra le culture è diventato un tema tra i più spinosi, irto di incomprensioni, di rivendicazioni e sul piano politico e giuridico di diritti disattesi. Il mondo culturale e accademico si divide tra neo, de e postcolonialismi diventati scuole di pensiero e ideologie. Ma la nostra condizione esistenziale oggi, sia come individui sia come comunità nazionali e internazionale qual è?

Adrian Paci, “Centro di Permanenza temporanea”, 2009, framed photograph. Courtesy of Francesca Kaufmann
di Anna Detheridge
Nel 2010 Connecting Cultures tenne un convegno alla Triennale di Milano sul tema “Lost in Translation” al quale hanno partecipato gli artisti Adrian Paci, Maria Teresa Alvez, Luca Vitone, Lorenzo Romito degli Stalker e Krzysztof Wodiczko. Ad aprire la discussione è stato Sarat Maharaj, tra i pensatori più interessanti nel campo del rapporto tra le culture e le arti visive.
Nato in Sudafrica, di origine indiana, si è formato in una delle università segregate dell’era dell’Apartheid, per poi raggiungere la Gran Bretagna come profugo. Già nel 1994 scrisse un testo di poche pagine dal titolo Perfidious Fidelity in cui analizza e approfondisce il tema della traduzione e dell’ibridità, una condizione che in qualche misura è oggi di tutti. La traduzione richiede sempre un salto creativo, uno scarto dell’immaginazione per trasporre all’interno di un altro contesto un significato espresso in una lingua diversa. Tale salto creativo produce “ibridità”, come anche ogni nuovo incontro con il diverso da noi. Ma ogni forma di ibridità è diversa perché si costituisce attraverso i percorsi e le esperienze di ciascun individuo. L’ibridità ci riguarda da vicino, costituisce la specificità di noi tutti.
Come trovare un modo per capirsi, per intuire ciò che non sappiamo dell’altro davanti a noi? Come fare per aprirsi a un incontro intersoggettivo, che sarà sempre e comunque uno spazio dinamico in divenire?
Si tratta di un incontro che deve fondarsi sul rispetto reciproco per quella parte dell’altro che noi non siamo in grado di comprendere. Se si parte dal presupposto che ognuno percepisce il mondo secondo la propria esperienza, è evidente che il terreno iniziale d’incontro sarà irto di pregiudizi e incomprensioni e che l’intesa tra i soggetti non potrà che essere estremamente fragile.
La cultura non ha più un punto di riferimento o collocazione certa, né a est né a ovest, trascende le frontiere, ma trascende anche i luoghi ristretti della rappresentazione autorizzata. Una conflittualità dilagante per la visibilità e il diritto di esistere nella coscienza collettiva porta con sé la contestazione di ogni forma di rappresentanza, quelle figure erette sul piedestallo della Storia.
Si inaugura una nuova era, definita “Biopolitics” quella di politiche che si fondano sulle esplorazioni del significato della vita degli individui, legata alla sacralità etico-giuridica dell’essere umano all’interno di riallineamenti e di nuove e diverse formazioni politiche, economiche e culturali. Si fa strada un’idea di empatìa con “il dolore degli altri” (dal titolo di un saggio di Susan Sontag) quale sensibilità universale da elaborare attraverso una codificazione etico-giuridica in un nuovo linguaggio universale dei Diritti Umani.
Le istituzioni culturali di tutti i paesi sono chiamate a costruire politiche di inclusione che rappresentino in maniera più equa le società plurali in cui operano, impegnandosi ad affrontare temi quali la differenza fondata sul genere, etnia, classe, religione, disabilità, livello di acculturazione ecc. Strategie di rappresentazione tuttora molto sottovalutate nei loro effetti di coesione sociale e che necessitano di un dibattito sia teorico sia empirico.
Molti artisti contemporanei sono oggi particolarmente attenti a tematiche che riguardano la memoria, la storia, gli archivi, i linguaggi e i codici con i quali si dà un senso alle cose. Costruiscono narrazioni che sovvertono le rappresentazioni convenzionali, le idee dominanti, mettendo in atto spostamenti e slittamenti di senso. Ma fino ad ora le istituzioni culturali hanno guardato con poca immaginazione le potenzialità di una collaborazione operativa con gli artisti. La narrazione di artisti e istituzioni culturali insieme dovrebbe poter mettere in dubbio quelle modalità convenzionali e prestabilite di rappresentazione, stimolando nuove conversazioni intorno alle cose antiche, al nostro quotidiano, favorendo l’innovazione e una maggiore apertura verso i cittadini e un pubblico potenziale.
Si tratterebbe di un ruolo d’avanguardia in grado di articolare e generare dibattiti autorevoli su temi complessi e sulle mille forme di identità ibride che vediamo intorno a noi, cogliendo i suggerimenti provenienti da un dialogo costante con il proprio contesto. Quali mediatori migliori degli artisti come rilevatori di cambiamento nel mondo in rapido divenire?