Dalla relazione alla mappatura: intervista ad Anna Detheridge di Emanuele Rinaldo Meschini di Contemporart sul progetto Out of Place.

Connecting Cultures, insieme ad a.titolo, è una delle poche (uniche) realtà italiane che si occupa in maniera strutturale del rapporto tra arte e spazio pubblico. Fondata nel 2001 a Milano da Anna Detheridge, l’associazione nel corso di quasi vent’anni ha accompagnato e stimolato l’approccio e il cambiamento della produzione artistica al di fuori del discorso dicotomico museo-galleria. Fin dalla prima operazione/ricognizione “Arte Pubblica in Italia. Lo spazio delle relazioni” (6 giugno – 2 novembre 2003, Cittadellarte – Fondazione Pistoletto) a cura della neonata associazione, i temi emersi da una certa corrente relazionale italiana – ascolto, alterità e marginalità urbana – sono stati messi alla prova nel confronto sempre più reale e concreto con un committente diverso, ovvero, il “senza voce” e “l’invisibile” che, nel tessuto di una socialità plurale e complessa, aveva la necessità di riscrivere i suoi diritti essenziali. Iniziamo però dal fondo e dall’attualità di Connecting Cultures impegnata adesso nello sviluppo del corso interdisciplinare Out Of Place, un percorso di mappatura con il focus specifico dell’area del Naviglio Martesana (Milano).

Qual è il ruolo della mappatura all’interno di modalità artistiche “pubbliche” e soprattutto come ci si rapporta ad un territorio specifico?
Anna Detheridge Il ruolo che assegniamo alla mappatura deriva da una concezione del Paesaggio che non viene separata dalle pratiche quotidiane e le funzioni economiche che ne strutturano la costruzione nel tempo e che ne determinano la trasformazione. Noi abitiamo il Paesaggio, e la sua tutela non può che essere parte di un impegno progettuale e un’attività di educazione e di formazione all’insegna della sostenibilità e volta al futuro ( si veda La Convenzione Europea del Paesaggio, la Convenzione di Faro e gli obiettivi dell’Agenda 21). In un’ottica diversa, tuttavia – che è anche la nostra – il Paesaggio è una risorsa, così come la sua storia e le pratiche agricole che abbiamo dimenticato e che corrispondono a un’economia pre-industriale non certo risuscitabile com’era, ma dalla quale si possono imparare molte cose, da rivedere alla luce di uno sviluppo post industriale, meno distruttivo della Natura, più attento all’innovazione. Mappare un territorio diventa dunque un modo per andare alla ricerca di segni, letture, pratiche ancora possibili, sistemi di relazioni potenziali al tempo stesso naturalistici, ambientali, sincronici o diacronici, funzionali e ecologici a seconda dei contesti. Per il nostro primo workshop di Out of Place realizzato in partnership con la Città Metropolitana di Milano abbiamo scelto come luogo di ricognizione il tratto del doppio asse del Naviglio Martesana affiancato dalla linea verde della metropolitana per mettere a fuoco un contesto periferico rispetto al vecchio centro storico, proprio nell’ottica di una metropoli policentrica che possa identificare lungo delle direttive altri punti di riferimento diversi o rimossi. Tra le ipotesi progettuali della Città Metropolitana oggi vi è quella di riaprire alcuni tratti dei navigli milanesi limitando l’uso delle auto che di per se potrebbe portare a un miglioramento dell’ambiente e a una riappropriazione di alcune parti della città. Tra i temi prioritari da affrontare per noi vi sono anche quelli del superamento delle visioni contrastanti attraverso l’adozione di un linguaggio progettuale condiviso che passa attraverso la comprensione e l’adozione reciproca di linguaggi e strumenti altrui: di architetti, urbanisti, geografi, sociologi ambientalisti, biologi, ecologi e ovviamente artisti. E’ soltanto nel vivo della collaborazione interdisciplinare che potrà avvenire l’acquisizione del linguaggio dell’altro, il che significa accogliere istanze che arricchiscono la progettualità comune”.

ERM – Nel vostro lavoro avete sempre rimarcato l’importanza della triangolazione artista-ente culturale-territorio specifico soprattutto attraverso il bando “Arte Patrimonio e Diritti Umani” (2010-2016). La modalità d’approccio che avete impostato attraverso il bando, potremmo dire, ha creato una piccola scuola di artisti impegnati nel sociale/pubblico. Quali sono stati i momenti più importanti e le pratiche che ha saputo generare?
ADAl momento di elaborare e scrivere il primo bando non eravamo assolutamente coscienti di aver impostato un nuovo linguaggio già in parte interdisciplinare anche se il nostro intento è stato sempre quello di spingerci oltre i confini riconosciuti del mondo assai asfittico dell’arte contemporanea. Il bando, che a mio parere aveva il difetto di voler tenere insieme troppe cose, ha in realtà voluto sostenere il lavoro dell’artista nella riscoperta o valorizzazione della memoria intesa in senso lato non soltanto quale patrimonio museale, ma anche come patrimonio immateriale e dialogo con culture diverse dalla nostra. Il bando finanziato dal Mibac è durato soltanto quattro edizioni, ma ha forse avuto il pregio di raccogliere intorno a temi reali che riguardano il confronto tra le culture, molti artisti allora emergenti (sotto i 35 anni) che si sono affermati anche attraverso quel confronto. Penso al film dell’artista Nico Angiuli “Tre Titoli” realizzato con l’Archivio del sindacalista Di Vittorio sullo sfruttamento dei lavoratori africani sul Tavoliere delle Puglie e la conseguente trasformazione del paesaggio. Attraverso un uso iconico delle immagini il film ha messo in evidenza il circolo vizioso della violenza e dello sfruttamento: dai braccianti pugliesi ai nuovi arrivati“.

ERM- Un elemento sul quale avete più volte puntato l’attenzione è stato il settore pubblico inteso soprattutto come valore aggiunto e non solo come centro di costo. In un periodo politico nel quale il pubblico sta incorrendo in un processo di continuo smantellamento, come si colloca il ruolo dell’artista?
AD Il settore pubblico oggi ha un ruolo importante non riconosciuto dalle scuole di economia dominanti, ma i tempi stanno cambiando, e una lenta percezione dell’urgenza di una teorizzazione che restituisca valore al pubblico nell’istruzione, sanità, ricerca, redistribuzione della ricchezza, dopo l’ubriacatura degli anni della “finanza creativa” avrà le sue ripercussioni anche sul mondo dell’arte. Gli artisti sono forse l’ultima categoria a sentire il peso della mancata libertà anche quando sono messi al bando in quanto sono sempre marginali al sistema. Artisti allineati al potere ci sono sempre ma la loro inconsistenza con il tempo si fa sentire. Un esempio anche assai costoso è Jeff Koons che marca la “regressione felice” di un’intera epoca, spesso spinto avanti con tecniche di marketing aggressive dirette a pubbliche amministrazioni da gallerie ormai molto potenti. Ma la maggior parte degli artisti più interessanti oggi da tempo non lavora esclusivamente per il mercato, spesso insegna, preferisce l’effimero rispetto alla volontà di “aggiungere altre cose al mondo”, fa ricerca in vari campi fuori dalle arti visive, preferendo alla visione altri sensi. Questo anche perché in un mondo mediato dalla tecnologia digitale, lo schermo e la scopofilia dominano tutte le nostre percezioni, alterando il nostro rapporto con la realtà. La sfera pubblica per me oggi non distingue tanto tra ciò che è di proprietà pubblica o privata, ma soprattutto prospetta per l’arte una funzione pubblica quale pratica di utilità sociale, cosa che non pregiudica affatto la libertà dell’artista nel concepimento dell’opera. Avere un committente non ha mai inficiato la qualità dell’arte dei grandi maestri della nostra storia. Misurarsi oggi con il mondo reale potrà soltanto rafforzare il rapporto degli artisti (con o senza committenti) con i loro destinatari, costruendo un dialogo che abbia una robustezza e rilevanza per pubblici allargati che non siano necessariamente collezionisti o frequentatori di musei“.

L’intervista ad Anna Detheridge è pubblicata a pag. 58-59  sul numero Aprile-Giugno 2019 di CONTEMPORART.