Vi proponiamo Dare voce al Mediterraneo, la riflessione di Ettore Favini, autore del progetto Au Revoir, intorno all’idea di confine, mai tanto labile come in questi giorni. Il testo di Favini, in forma di lettera, è ospitato ne ‘Il giro del giorno’, quaderno personale di Antonio Rovaldi, nato dal desiderio di dare voce ai contenuti della mostra Il suono del becco del picchio, inaugurata lo scorso febbraio alla GAMeC negli spazi dell’Ala Vitali dell’Accademia Carrara e chiusa a causa dell’epidemia qualche settimana fa. Un destino analogo alla mostra Au Revoir, attualmente installata al Carré d’Art Contemporaine di Nîmes chiuso per emergenza Covid-19.
DARE VOCE AL MEDITERRANEO
Ettore Favini, artista, Cremona, Italia
Caro Antonio,
ti ringrazio per questa tua lettera che, oltre agli aggiornamenti quotidiani, mi permette di fare alcune considerazioni relativamente a questo tempo sospeso. Sono ormai da oltre trenta giorni che non mi muovo da casa, se non per le necessità primarie concesse dal Governo. Il due aprile avrei dovuto inaugurare Au Revoir, la mia mostra personale presso il Carré d’Art Contemporaine di Nîmes, curata da Connecting Cultures e attualmente installata in un enorme museo che ha chiuso le sue porte. Tutta la serie di presentazioni relative al progetto e al libro, vincitore della VI edizione dell’Italian Council, sono state rimandate a data da destinarsi. La nostra pratica, più di altre, ci porta a viaggiare per conoscere e mappare luoghi e territori, lo abbiamo sempre fatto, da soli e insieme, e spero potremo continuare a farlo presto. Il mio progetto di indagine intorno al Mediterraneo nasce dalla necessità di raccontare i confini, gli scambi di idee, l’origine e l’evoluzione dei simboli che hanno sempre trovato forma in questo mare circoscritto. Ognuno di noi, di colpo, a livello globale, si è trovato a dover riconfigurare completamente i propri confini quotidiani. In queste settimane ho ragionato proprio intorno all’idea di confine, ho capito quanto questo concetto sia labile e debba essere necessariamente messo in discussione. A proposito di questo lungo progetto, che ha preso forma nel tempo un po’ come il tuo intorno ai margini di New York City – vorrei soffermarmi su un’opera in particolare.
Il ciclo di opere Mer fermée si è ispirato alla geografia, o meglio allo sviluppo cartografico, partito proprio dalla rappresentazione del Mediterraneo in età greca. Sono sempre stato affascinato dalle carte geografiche, non solo perché sono la rappresentazione di una porzione di geografia, più o meno estesa, ma per il significato che noi attribuiamo a uno territorio specifico. La prima mappa del mondo risale a 2500 anni fa, è una tavoletta babilonese in argilla, rinvenuta vicino alla città di Sippar, con un buco al centro circondato da incisioni di forme geometriche e cerchi concentrici. È la prima rappresentazione del mondo conosciuto che a quel tempo si estendeva solo alcuni chilometri oltre Babilonia. L’autore della Mappa Mundi babilonese di Sippar non voleva rappresentare un territorio ma il mondo, e ha deciso di farlo con una visione dall’alto, in pianta: una visione divina del mondo conosciuto che era al momento l’unico mondo possibile. Allo stesso modo, se chiediamo a un bambino di disegnare una mappa, inizierà dalla sua casa – il suo mondo – con gli elementi che la compongono: la sua prima necessità umana di tracciare dei limiti attorno a ciò che conosce.
In questa opera sono andato alla ricerca di carte geografiche, planisferi e mappe che sono state fondamentali per le popolazioni intorno al bacino del Mediterraneo, cercando di capire le ragioni della necessità di tracciare dei confini. Durante la mia ricerca ho scoperto che le mappe sono oggetti magici perché conferivano un potere oscuro sia a chi le realizzava che a chi le possedeva. I cartografi venivano spesso condizionati dalle idee o dalla politica dell’epoca. Sono descrizioni parziali o falsate del mondo, ma sono rassicuranti, perché indicano dove siamo e da cosa siamo circondati, ci danno l’illusione di controllare un territorio o il mondo intero.
La prima mappa in cui mi sono imbattuto, il più antico planisfero di cui si abbia notizia, è attribuito ad Anassimandro (610-546 a.C.), allievo di Talete. La mappa originale non esiste più, come tutti i documenti dei presocratici, ma grazie alla sua descrizione è stato possibile ricostruirla. La sua particolarità è che la parte più importante della mappa non sono le terre, bensì l’acqua. È di fatto una rappresentazione abbastanza reale del mar Egeo, ma anche del Mediterraneo nel suo insieme.
Spero di rivederti presto, tra Milano e Cremona.
Ettore
Foto di apertura: Ettore Favini, Mer fermée, 2019, cianotipia su tessuto a mano
Qui il video della mostra al Carré d’Art-Musée d’Art Contemporain de Nîmes