Di Anna Detheridge
“Il latte dei sogni” titolo della 59esima Biennale di Venezia, potrebbe essere interpretato come “il nutrimento dell’immaginazione”, ossia di quella facoltà umana di cui troppo diffidiamo in un’epoca votata alla razionalità, all’intelligenza artificiale e alla tecnologia, salvo poi rimanere disarmati quando irrompono nel nostro mondo la dimensione dell’ignoto, oscuri moti dell’animo di arcaica aggressività, forze della natura incontrollabili che non rientravano nei nostri obiettivi.
La mostra, preparata nella solitudine forzata della pandemia dalla curatrice Cecilia Alemani, conta oltre 200 artisti da 58 Paesi, quasi tutte donne. Insieme ai padiglioni nazionali e gli eventi collaterali, la manifestazione diventa sempre più gigantesca, impossibile da descrivere se non scegliendo alcuni percorsi di senso tra i molti possibili.

Gertrud V. Parker Collection. Courtesy Gallery Wendi Norris, San Francisco. © Estate of Leonora Carrington _ Artists Rights Society (ARS), New York
Tra i più affascinanti di questa edizione votata alla straordinaria e feconda libertà di sognare, vi è un percorso che oggi si direbbe “trans storico”, illustrato da cinque capsule del tempo dedicate a far riemergere dalla notte del tempo le artiste dei primi decenni del Novecento. Meravigliose creature che spesso hanno iniziato la loro carriera come muse degli artisti surrealisti loro compagni, per poi intraprendere una strada totalmente inedita, diventando esse stesse artiste, poetesse, autrici, trovandosi dunque a scuotere le sbarre della femminilità e delle convenzioni dell’epoca. A queste donne tra le quali Leonora Carrington, (autrice del libro di fantasiosi ricordi infantili Il latte dei Sogni che dà il titolo alla mostra), Dorothea Tanning, Leonor Fini, Meret Oppenheim, Claude Cahun, Remedios Varo e molte altre dobbiamo un inchino di riconoscenza per ciò che hanno fatto per rompere quella matrice, spesso pagando quel gesto con una vita fuori dal consesso umano, nei sanatori o peggio. Le loro opere sono affascinanti per ciò che rivelano su temi quali dominazione e sottomissione, (L’Alcove di Leonor Fini del 1941) gli aspetti insondabili di ciò che ci è o ci sembra “famigliare”. Carrington in particolare, artista poliedrica, poetessa, amica di Jodorowsky suo grande ammiratore, coraggiosi esploratori della psiche umana fuori da ogni schema, è una degna musa di questa grande esposizione.
Ma nella capsula trans storica vi sono anche testimonianze della African Awakening, Africa come simbolo di una nuova identità nella diaspora della cultura nera negli Stati Uniti come in Francia intorno alla rivista Tropiques e il poeta martinicano Aimé Césaire che celebra la propria Négritude, il primo movimento intellettuale panafricano. Time capsules come ante fatto di una mostra molto più radicale di quanto non appaia a prima vista, con artiste/i provenienti da tutte le parti del mondo in gran parte sconosciute/i, ma inserite/i nel loro contesto culturale e capaci di aprire una finestra non solo su quei mondi, ma anche sul nostro.
Il capovolgimento dello sguardo e del linguaggio visivo teorizzato dalle femministe come Linda Nochlin e Rosy Braidotti negli anni 70, qui si manifesta in maniera palese, sia tra i sessi (e i generi) sia a livello geopolitico. Spodestato il totem dell’io universale del maschio occidentale, qui domina la vessel ossia le mille fogge dell’uterino, inteso non come disturbo “isterico” freudiano, ma come contenitore, capacità di assorbimento, equilibrio, riparo. Non è certo un caso se la gigantesca scultura che apre il percorso delle Corderie dell’Arsenale, Brick House di Simone Leigh, posta al centro della stanza ritrae un’immensa donna nera concepita quale casa, rifugio, luogo di stabilità e di conforto. Divine Giants Tribunal ossia tre maschere nere alte tre metri di Tau Lewis, cucite a mano con frammenti di pelliccia, pelle e tessuto riciclati sono un manifesto politico che mette in campo ritualità yoruba e le sferzanti critiche al potere del drammaturgo nigeriano Wole Soyinka.
Tra i temi dominanti vi è quello della metamorfosi dei corpi, tra l’umano, l’organico e il non organico che talvolta si confonde con il post human. Molte opere rivelano un rapporto con il nostro corpo tutt’altro che risolto, quasi fosse un abito troppo stretto di cui disfarsi, sintomo forse di altri disagi e sconforti non sempre indagati con lucidità. Talvolta pezzi di arti si ibridano con bracci tecnologici, sanguinolenti, sovradimensionati nella loro pretesa di spettacolarità.
Tra le visioni più potenti vi sono le tele di grandi dimensioni di Paula Rego che dipinge una umanità distopica e corrotta che urla la propria disperazione. Tra queste Snow white and her stepmother, (Bianca neve e la matrigna) che narra la violenza e l’umiliazione dell’intimità senza amore con la forza di un Goya dei nostri tempi.
Ma la metamorfosi riguarda anche i luoghi, trasformati dal colonialismo (o forse anche soltanto dalla volontà di speculare di governi locali) come viene raccontato nella video installazione di Ali Cherri, originario di Beirut, artista poliedrico che nella narrazione dell’interminabile guerra civile del Libano affianca un mondo antico, mitico e quello contemporaneo attraverso i sogni di un lavoratore stagionale di una grande diga che ha esiliato oltre 50mila persone.
Egle Budvytyte di Vilnius, Lituania esplora la permeabilità tra i corpi e la natura. Nel suo video Songs from the Compost filmato tra le foreste e le dune della Lituania, raffigura corpi e organismi che si muovono all’unisono. Il lavoro si fonda su letture femministe come quelle della biologa Lynn Margulis, le tesi di Donna Haraway e altre scienziate che contestano non Darwin, ma il darwinismo, proponendo una visione alternativa dell’evoluzione biologica e della selezione naturale, riferendosi piuttosto all’interazione e alla cooperazione degli organismi.

Songs from the Compost: mutating bodies, imploding stars, 2020, Eglė Budvytytė. Ph. Roberto Marossi. Courtesy: La Biennale di Venezia
Infatti molte opere in mostra si fondano su teorie che in qualche modo sovvertono i canoni della narrazione scientifica occidentale, svelando la necessità biologica e non soltanto sociale di reti interconnesse tra l’umano e il non umano per nutrire quelle relazioni fondamentali tra le specie. Tradotte in opere talvolta appaiono un poco didascaliche.
Dominano tecniche “femminili”: il cucito, il lavoro a maglia, il ricamo, la tessitura a mano per esempio del macramé (arabo) in colori voluttuosi come nelle sculture di Mrinalini Mukherjee già attiva negli anni 70. Sdoganati anche materiali ritenuti fino a poco tempo fa non degni, dalla fibra di canapa alla seta, con tanto di perline, reti, frammenti riciclati di stoffe, la ceramica e la terra stessa.
Tra i padiglioni nazionali più affascinanti vicini alle tematiche di quest’anno vi è il padiglione nordico (Norvegia, Svezia e Finlandia) ribattezzato padiglione Sámi di Arte, conoscenza e sovranità indigena in omaggio alla visione e alle pratiche degli artisti Sámi dei territori a nord di questi tre Paesi. Il tema delle culture indigene presente in sottofondo in tutta la mostra qui viene esplicitato attraverso il lavoro e le parole del Čatnosat (Sámi del nord). Ciò che emerge è una prospettiva radicalmente diversa, una saggezza che si fonda su una visione olistica del mondo dove il tempo è ciclico e mai lineare e la terra e il paesaggio hanno un valore spirituale. In For Us il poeta Timimie Gassko Märak scrive:
“scavano carbone, estraggono petrolio, mancano l’aurora /denaro insanguinato /non cammineranno nelle nostre orme /perché abbiamo a che fare con il deserto dell’anima /Campi di lavoro sulle nostre terre natìe…”

Pavilion of NORDIC COUNTRIES, The Sami Pavilion. Ph. Marco Cappelletti. Courtesy: La Biennale di Venezia
Dare voce a queste popolazioni apre infinite questioni fin qui mai affrontate in termini giuridici e che riguardano innumerevoli diritti delle popolazioni come ad esempio il diritto al freddo: la giustizia climatica per l’Artico rivendicato da diversi popoli del nord.

Pavilion of ITALY, STORIA DELLA NOTTE E DESTINO DELLE COMETE. Ph. Andrea Avezzù. Courtesy: La Biennale di Venezia
Al padiglione Italia va in scena la rievocazione di un passato industriale di Gian Maria Tosatti a cura di Eugenio Viola che attraverso reperti suggestivi ricontestualizza negli ex magazzini dell’Arsenale il Tempo trascorso, una dimensione leopardiana, molto italiana, mentre al padiglione belga, lo sguardo trasversale di un poeta “umanista” come Francis Alys è dedicato ai giochi dei bambini.
Dall’Afghanistan dove far volare un aquilone era fino a poco tempo fa vietato, alla corsa delle lumache in Belgio, al gioco di un bambino di Lubumbashi che spinge lungo la salita di una montagna fatta di scorie delle miniere di cobalto un enorme pneumatico nel quale arrivato in cima s’infila per rotolare giù pericolosamente. Sempre in Congo un gioco solo femminile tra due squadre che cantano e battono le mani al ritmo sempre più veloce delle gambe in movimento diventa così fulmineo da restare incomprensibile per chi non conosce le regole. Il gioco dei bambini è un modo per conoscere una società, dice Alys, si fa con ciò che si ha a disposizione, viene tramandato di generazione in generazione, spesso comprende regole severissime ma anche il pericolo che alimenta l’adrenalina, sollecita l’immaginazione, la destrezza, la forza e il giudizio, elementi essenziali per diventare pienamente adulti.
L’articolo di Anna Detheridge è pubblicato sul numero di VITA maggio 2022.