Carla Lonzi è una “presenza alle mie spalle”, come un’ombra che si profila nella mia esistenza da una quarantina di anni …con alcune resurgenze le cui date, non mancano di coincidenze tragiche, come potrebbero testimoniare alcuni amici…
Lonzi c’entra nel mio percorso di critica (assai irregolare comunque non accademico), nel mio percorso di femminista, infine nella mia esistenza di compagna d’artista. I tre ambiti formano ovviamente un’unica avventura, non liscia, anzi nodosa, un bel nodo.
Non l’ho mai incontrata, stranamente, ne l’ho cercata (a metà anni ’60 a Torino ero timida, appena sbarcata e parlavo male l’italiano…). Forse ho preferito leggerlo. E poi L’ho “conosciuta” tramite gli amici, Pistoi, Paolini e Anna Piva, Fabro, poi Accardi, Eva Menzio, Nini Mulas.
Ho persino tradotto in francese “Sputiamo su Hegel”, per un editore che non conoscevo, senza contratto, poi uscì un’altra traduzione per les Editions des femmes!
Sono convinta di aver subito la sua influenza, la sua lezione, con quella specie di “autococienza” e scrittura condivisa che aveva condotto con il suo gruppo “socratico” di artisti, per cinque anni.
A suo seguito, ho scritto su (e con) diversi artisti – uomini ma soprattutto donne: la stessa Accardi ma anche Marisa Merz, e tante altre… seguendo le raccomandazione del Manifesto di Rivolta Femminile.
Per la diffusione dei miei testi ho avuto ricorso a strumenti certamente “inquinati”, giornali, riviste, RAI ecc. Ma ho anche contribuito a creare un’editoria autonoma di donne con le Edizioni delle donne, tra le cui pagine di narrativa e ho spesso inserito immagini di opere di artiste contemporanee.
Per l’altro ambito di affinità con Lonzi – la vita privata – anch’io compagna di un artista per un ventennio, ho conosciuto il conflitto molto speciale che vive una femminista con un uomo artista… e so perchè non ho letto (non ho voluto leggere) “Vai pure”, né quando uscì nell’80, né entro l’estate ’82 quando morì Carla.
Nel ’93 mi è stato chiesto di pensare per la Biennale di Venezia una sala omaggio. Con una certa apprensione ho accettato, consapevole della contraddizione nei termini tra la figura della Lonzi e l’idea di “omaggio” istituzionale. Ho evitato di far appello alle sue compagne femministe e ho cercato di ricostruire filologicamente quanto lei avesse realizzato nel campo dell’arte fino alla pubblicazione di “Autoritratto” (’69), cioè l’apice del suo sodalizio “largamente comunicativo e umanamente soddisfacente” con un gruppo di artisti… prima del congedo al quel mondo.
Nel prepararmi, avevo interpellato i protagonisti: Paolini, Fabro, Kounellis, Accardi e ovviamente Consagra. Ho ricostruito la collezione di opere che loro le avevano offerto e che era in parte rimasta presso Battista Lena, il figlio (incontrando anche il padre, Cesare).
La sala – credo – restituiva assai l’atmosfera del sodalizio: con le opere, accompagnate da estratti del libro, e tante foto private… In particolare lei, Carla, in grandezza naturale, concentrata sulla macchina da scrivere, fotografata da Consagra a Minneapolis, nell’ inverno ’67-’68.
Oggi Laura Iamurri, nella sua prefazione alla riedizione del libro, mi fa la cortesia di ricordare quella sala … ma nel ’93 non credo sia stato molto apprezzata da Rivolta Femminile. Ero passata decisamente dalla parte del nemico, complice della contorta strumentalizzazione delle sue intuizioni… come aveva lei stessa già denunciato nell ’81 quando invitata da Germano Celant a scrivere per la mostra Identité Italienne al Beaubourg aveva scritto un testo amaro e agressivamente rivendicativo: si sentiva derubata, tradita. La cito:
«… Mi si riconosce il merito critico in modo che, sebbene da 10 anni sia fuori dalla professione, ci ritorni per quel tanto che serva a ricordare quegli anni che io e non un altro, ho vissuto in quel modo, vedendo quello che altri non vedevano. Naturalmente la cosa non funziona (…). Qualsiasi parola in questo ‘contesto Beaubourg’ sarebbe in funzione di mito (…) però voglio dire queste cose perchè servono a me (…) sono stata una critica in gamba, ho azzeccato tutto su una questione fondamentale in cui non sono in molti a poter dire altrettanto, a cominciare dal curatore della mostra».
Nel 2010, rileggendo quasi tutto della Lonzi, ho capito che quella donna continua ad interpellarmi, ma essenzialmente nel campo dell’arte, per due motivi:
– primo, perchè rispetto al femminismo, non sono mai riuscita a considerarla come figura tutelare teoretica (come invece Irrigaray, Muraro, Firestone, Cixious e Kristeva circa la creatività femminile/maschile); per me la Lonzi appartiene semmai alla fenomenologia del femminismo, all’esistenzialismo femminista, all’esperienza vissuta fino all’estremo dell’autocoscienza.
– secondo, perchè non riesco a credere che lei avesse chiuso per sempre con la pratica creativa della scrittura sull’arte, o scrittura tout court.
Ma torniamo al testo dato a Celant nel ‘81:
«Sono stata in prima linea, ho detto la parola chiave per capire una situazione. Per capire, per orientarmi su una domanda tanto assillante e che mi accomunava a questi artisti ( …). Dire queste cose serve a me, ora che – lontano dall’istituzione culturale – so che significa annaspare nell’indistinto (…) ho avuto bisogno di pensare al problema per i fatti miei, in prima persona (….) Ma ormai avevo imparato la lezione dai miei artisti e andarmene non mi ha spaventato anche se è spaventoso».
In questa dichiarazione c’è l’ammissione di un esperienza di dolore “spaventoso” e vorrei interrogare quel dolore. Era già molto presente nel diario “Taci, anzi parla”, pubblicato nel ’78 quando, sfatata la pratica dell’autocoscienza e scoperto di esser caduta nell’ideologia, cessa per lei l’alleanza tra donne. Al suo posto subentra la solitudine e uno «scontare momento per momento, nella propria vita, l’idealizzazione dell’uomo, il bisogno del suo consenso». Dunque solitudine, soggettività singola, il partire da sé.
I segni del dolore dell’anima culminano nel breve “Vai pure”, dialogo antifonale dell’80, voluto da lei, per un’ iniziativa reattiva, un mese dopo l’uscita di “Vita mia” di Consagra, e due anni dopo quella del proprio diario “Taci, anzi parla”. Consagra non avrebbe forse elaborato “Vita mia” senza il lungo dialogo tra loro due per anni: lei ne è infastidita e lo dice!
Il testo è la trascrizione di quattro giornate di “duello”, il verbale di un fallimento, la fine del percorso relazionale, ed è un serbatoio di dolore… Dalla tragedia in quattro atti emerge una Lonzi struggente.
Da una parte, le sue esigenze intellettuali sono senza compromesso possibile, implacabili: a Consagra non solo viene contestato il piacere della fase “celebrativa” della creazione artistica, lusinghe, gratificazioni, amici e ammiratori allo studio, soprattutto “ammiratrici”, e altre “graziosità”… ma persino il momento creativo, la messa a fuoco dell’intuizione per conto proprio («da solo, al lavoro» come rivendica lui, frainteso). Lei ribadisce: «la donna è dialogo, l’uomo è singolo perchè sempre in competizione con altri!».
Dall’altra, la fragilità di Carla è evidente: le ultime pagine sono di smarrimento affettivo totale. Eppure se la valenza relazionale non è in grado di annulare l’individualità dell’artista, per lei è un fallimento. Dunque meglio separarsi, come implicano le ultime due parole. Ma quel «vai pure» non è agressivo, tanto meno trionfante: è piuttosto un lamento epico, un’agonia.
In alcune delle testimonianze da me raccolte nel ’93, mi è stata confermata questa sofferenza di Carla Lonzi, che nessuno poteva alleviare: nella conversazione con Consagra (ho in mente il suo volto, aspro e pudico, nel riparlare di lei); con Fabbro (che mi confidò: «Carla ha vissuto da martire, ma l’ha voluto lei, quel martirio»); e ancora di recente con Carla Accardi, l’unica artista donna presa in considerazione da Lonzi, la grande amica e cofondatrice di Rivolta Femminile, che oggi ripete «ho patito molto di essere rigettata da lei… il perchè? perchè io volevo far l’artista, non la femminista».
Faccio una serie di ipotesi.
1. Credo che il grande dolore di Carla Lonzi fosse una strettoia senza sbocco nel suo progetto intellettuale e esistenziale, uno scacco spietatamente cercato e vissuto nella disperazione, in una voragine negativa, con i “suoi” artisti, aveva immaginato una specie di falanstero intellettuale, creativo, e assolutamente reciproco; ma un anno appena dopo la pubblicazione di “Autoritratto”, si sentiva già tradita perchè loro, gli artisti, volevano andar avanti ognuno nella sua singolarità.
2. Forse, la creatività artistica femminile – a parte la soglia minimale dell’espressività esistenziale, “inferiore”, nel quotidiano e nell’autocoscienza – non la interessava. Il voler “far l’artista” in una donna le era insopportabile.
3. Addirittura, le arti visive non erano forse la sua vera passione – semmai era la scrittura (e la letteratura : amava Mansfield, Svetaeva, era reticente sulla Woolf…)
Arrischierei dunque un’altra lettura del suo percorso.
Dopo le poesie di giovinezza ’58/’63, (ma pubblicate postume), è nella critica d’arte che aveva cercato – e trovato – un linguaggio, una scrittura tutta sua, una “lingua” speciale, polifonica, semiotica, corporea, musicale, con gli artisti amici, in simbiosi (altroché trascrizione dal registratore! piuttosto un sapiente montaggio, alla Godard, o alla Céline). E quando diceva di aspettare da loro “reciprocità” e “riconoscimento”: ma riconoscimento di che? della sua capacità maieutica circa la presa di coscienza della creatività altrui? O piuttosto di una sua personale creatività?
Secondo me Carla Lonzi non si è permessa di diventare scrittrice (come invece la Banti o la Volpi, sua grande amica); si è auto-castigata, costretta a scrivere – a più mani – testi ideologici, una scrittura sacerdotale e militante.
Si è permessa unicamente il “diario” come lascito alle altre donne, testimonianza e invito a continuare il racconto di sé. Ed è forse questa dimensione sacrificale che le vale ancora oggi quel culto, quella forma di venerazione da parte di un certo femminismo.
Ma di fronte ad un narcisismo così conflittuale e disturbato, si può parlare di “martirio”, come mi ha detto Fabbro? Il suo percorso manca di quella valenza ascetica che connota l’esperienza delle mistiche (come Teresa di Lisieux) o delle laiche (come Simone Weil). Certo la vita di clausura l’attraeva («avventura invisibile e non sindacabile»), come misto di comunità partecipativa e di esperienza solitaria, ma nel suo caso mi pare un miraggio assai equivoco, una tendenza alla santità… negativa.
Per concludere, cito un’ultima frase dal testo dell’81 per Identité italienne, per via del risvolto progettuale che sembra affiorarvi, e che mi tiene a cuore :
«…Questa uscita mi ha permesso di arrivare ad un distacco che mi permetterà di tornare: al punto in causa, non all’istituzione. Questa mostra rappresenta solo le mie premesse»
Cos’è quel punto in causa? la creatività?
Difficile ipotizzare il seguito: quando la Lonzi scriveva questo avvertiva già i dolori strani del male che l’avrebbe portata via nel giro di appena un anno – con Consagra al suo fianco fino alla fine – mentre lei era ancora giovane e, chissà, forse pronta ad una nuova svolta, vitale e più felice?