Recentemente sono state fatte e se ne faranno ancora molti convegni e presentazioni della figura e dell’opera di Carla Lonzi, riedito per intero da et al./edizioni, meritoria e coraggiosa casa editrice in controtendenza. In una cornice insolita come quella di una rivista online, vi proporrei di parlare di Carla Lonzi a partire da “Autoritratto” pubblicato per la prima e unica volta nel 1969, oltre quarant’anni fa, ampliando lo sguardo su ciò che questo prezioso e insolito libro ci porta a discutere: in primis il mestiere del critico, il rapporto tra critica e il proprio tempo, ruolo che Carla Lonzi già con questo libro giudicava esaurito.
Io vorrei soprattutto porre delle domande alle persone qui presenti che in diversi ambiti e ruoli hanno conosciuto molto meglio di me il lavoro e la figura enigmatica di Carla Lonzi. Sono domande che nascono abbastanza spontanee da una persona come me cresciuta e educata in un Paese di cultura profondamente diversa, l’Inghilterra trasferitasi in Italia a vent’anni, piombata nell’Italia degli anni Settanta.
“Autoritratto” ha indubbiamente dei primati assoluti:
- la tecnica dell’intervista registrata molte delle quali realizzate per Marcatrè rivista particolare e unica caratterizzato da un approccio non ideologico ma ermeneutico: la cultura come interpretazione e visione del mondo che, come tutte le cose uniche nella cultura italiana, rimane imbozzolato e accantonato dal Sistema della Cultura ufficiale, ideologizzato che ancora vige in questo Paese.
- è la prima volta che la critica mette in viva voce gli artisti. Invece di ricondurre l’opera dell’artista all’interno di un alveo ideologico che rispecchiava l’appartenenza politica o religiosa o territoriale del critico (ciò che tutti i critici maschi all’epoca facevano), si inaugura la pratica dell’ascolto, ascoltando peraltro una nuova generazione di artisti.
- Il pensiero e la figura dell’artista come intellettuale che torna di attualità come nei momenti più alti della storia dell’arte italiana. Al centro è il pensiero e non l’oggetto, come era in epoca rinascimentale.
Il tema centrale è in fondo l’emancipazione dell’artista, che attraverso il lavoro di Carla Lonzi viene legittimato a parlare in prima persona. Tale visione messa in atto rispecchia ciò che per Carla Lonzi rappresentava la base della propria consapevolezza di donna e di femminista: lei applica agli artisti ciò che vorrebbe per sé. Le donne in quegli anni cominciavano a raggiungere alcuni obiettivi di emancipazione ma tale emancipazione non aveva alcuna rappresentatività simbolica. Le donne tranne qualche raro caso di scrittrice e artista, fino agli anni settanta non erano mai state autorizzate a parlare in prima persona di sé.
Ciò che è totalmente originale nella storia del femminismo italiano – è la pratica dell’Autocoscienza, una pratica completamente diversa da ciò che furono negli Stati Uniti i gruppi preposti a divulgare e a aumentare la autoconsapevolezza nel femminismo americano. Il metodo rigoroso di parlare e parlarsi nei gruppi, quell’Io che dico Io è una specificità e un metodo teorizzato che non solo permetteva alle donne di parlare in prima persona, ma le obbligava a una introspezione e ad esprimere un parere nella prima persona laddove il soggetto parlante, l’io universale del linguaggio comune era sempre stato (e per l’italiano lo è tuttora) declinato sempre e unicamente al maschile. La pratica dell’ io che dico io afferma per la prima volta in maniera programmatica un punto di vista diverso; quel parlarsi tra donne, esclusivamente tra donne per condividere ciò che le era stato negato, affogato nell’universale della soggettività maschile è stato un momento necessario e un passo fondamentale del femminismo in Italia. Oggi la soggettività maschile che incorpora l’universale è stato totalmente abolito; non è più possibile utilizzare il maschile per intendere l’uomo e la donna quali soggetti universali come negli anni 60. Non è più possible per esempio parlare del “Futuro dell’Uomo” ossia “The future of Man”, Nessuno testo accademico o divulgativo dirà mai “Man” per intendere l’uomo e la donna in generale. Per indicare un soggetto indifferenziato si dice e si scrive oggi “she” in quanto il pronome SHE contiene anche S+HE).
La pratica dell’Autocoscienza delle donne in Italia non è stata sufficientemente capita né valorizzata nella sua funzione di estrema chiarezza: autocoscienza come pratica filosofica e politica che porta all’affermazione di un proprio pensiero e soggettività in una società che non si è ancora scoperta plurale. In questa pratica c’è uno scarto: non si tratta più di denuncia dell’oppressione, ma dell’affermazione di categorie interpretative del sapere fondate sulla differenza. Questa idea e questo scarto sono a mio parere significative e in grande anticipo sul tema della società plurale, di una società fondata sulla differenza.
Se penso al femminismo in arte che nasce negli Stati Uniti e in Inghilterra intorno al settanta, nella pratica di donne estremamente lucide quali Mary Kelly bisogna costatare che per poter parlare in prima persona ha dovuto ancorare le proprie idee alle teorie psicoanalitiche lacaniane.
Ma ciò che a me personalmente disturba della vicenda di Carla Lonzi riferita al mondo dell’arte è che a me pare che in qualche modo Lonzi si autocondanni al silenzio e alla rinuncia. Se per quanto riguarda l’analisi della funzione critica lei è lucidissima, in particolare riguardo la condizione di una società edonista incapace di prendere seriamente l’arte, per quanto riguarda le conclusioni che ne trae, invece, rimango confusa. Dov’è lo strapotere del critico? Si tratta di megalomania? O senso di colpa travolgente? Forse entrambe le cose. La maniera in cui si dipana la sua vicenda assomiglia a una deriva che intraprende una tangenziale fuori rotta.
Oggi quarant’anni più tardi io vedo, invece, una urgenza e un vuoto della critica che è scomparsa, sostituita soltanto da una informazione che non informa, ma disinforma, promuove qualunque cosa che abbia alle spalle un motore di natura politico economico ma non culturale e morale. La sua scelta “intuitiva” di artisti, allora tutti giovanissimi, il suo fiuto da critico non poteva essere più felice, e non poteva essere un caso che si trattasse di una nuova generazione di artisti che aveva superato la classica suddivisione dell’arte in pittura, scultura ecc. con una capacità di porsi quali intellettuali, ironici sul piano del pensiero e della quotidianità. La sua voce è sicuramente mancata a questa generazione e all’arte italiana in genere.
Questa assenza ha molte e diverse motivazioni e responsabili che non stiamo qui a analizzare, ma mi chiedo se l’abbandono o l’autocolpevolizzazione, un mancato distinguo tra la propria pratica che ha prodotto lo scarto, che è stata assolutamente innovativa, non fosse motivato soprattutto da una delusione, il senso di essere stata abbandonata dagli artisti. A me pare di intuire una fragilità dietro l’intransigenza che non viene normalmente rilevata come se la professata estrema coerenza nascondesse in realtà una rifiuto, un respingere fuori dalla propria sfera, in fondo un estremo autolesionismo molto comune tra le donne, che finisce con una chiusura, la volontà forse un po’ troppo nevrotica di buttare via insieme all’acqua sporca anche il bambino. E che dire della sua passione per Teresa de Lisieux, Teresa d’Avila che usando le parole di Lonzi, “hanno rinunciato a tutto tranne all’essenziale”. E quale sarebbe questo essenziale?
Il femminismo ancora a metà del guado con forti pressioni per tornare dentro il guscio, uno screditamento e una ignoranza profonda del pensiero teorico femminista che perdura ancora oggi non è stato aiutato dal settarismo della generazione di femministe alla Carla Lonzi. E’ un tema e un argomento che andrebbero continuate e approfondite in altra sede, un invito aperto che Connecting Cultures fa a chi volesse riprendere il dibattito, non certo per ragioni accademiche o storicistiche, ma per riprendere e riformulare un ruolo nuovo e non meno urgente del pensiero della differenza nella società italiana contemporanea.
Anche tra le artiste italiane oggi quarantenni, figlie delle femministe della prima ora non c’è consapevolezza di quel pensiero della differenza, e io personalmente ho notato in molte di loro, cosa che mi ha sorpreso, una grande fragilità.
Mentre per la Storia dell’arte e la critica dell’arte quell’apertura di fiducia agli artisti, quel concedere la parola non ha portato a un gran dialogo tra le parti?
Il mio invito è di chiederci se la capacità di ascolto, le molte intuizioni di Carla Lonzi non potrebbero essere oggi riprese, confutando la sua volontà di chiudere, imparando invece da quella parte del suo lavoro che ha aperto al dialogo e alla differenza: andare oltre quella sua volontà di purezza e di rinuncia nel quale è difficile riconoscersi, individuando invece nella sua integrità intellettuale più che nella coerenza, una lezione e una tappa fondamentale verso un rinnovato ruolo della critica quale responsabilità individuale e collettiva a partire dalla soggettività di chi scrive.
Il passo successivo per le donne che lei non ebbe la forza di compiere è, a mio parere, quello dell’assunzione di un ruolo pubblico nella società plurale, che vuol dire responsabilità, scelta, dire anche di No al Potere, che tuttavia non vuol dire Rinuncia.
Vi pongo queste riflessioni in forma interrogativa di domanda aperta, ai partecipanti, al pubblico e a chi volesse rispondere.