Di Anna Detheridge
L’interesse per il pensiero critico oggi proviene principalmente dal mondo del lavoro perché tutto d’un tratto ci si accorge che manca quella competenza fondamentale che permette di risolvere i problemi a partire da un’accurata analisi dei fatti, dalla corretta comprensione del contesto e dal discernimento. Un tempo quest’ultimo era il requisito base della “literacy”, l’alfabetizzazione, l’abc del pensiero. Ma il critical thinking, la capacità di farsi un’opinione “informata” anche in poco tempo non è soltanto un problema di competenze analitiche, ma è una capacità complessa anche intuitiva, fondata su quella conoscenza empirica e empatica che ha a che fare con una consapevolezza che non si basa soltanto su argomenti razionali. Forse il pensiero critico ha più a che fare con concetti filosofici ormai rimossi, quasi insondabili, quali la saggezza, lo scetticismo e una capacità riflessiva che i tempi rapidi della contemporaneità non favoriscono, non portano a maturazione.
Nella costruzione del pensiero critico vorrei spezzare una lancia a favore delle arti, delle lettere e di quella facoltà meravigliosa quanto misteriosa che è l’immaginazione, (tutto il contrario dell’immaginario che indica soltanto un repertorio di immagini dejà vu pronti per il riuso) un terreno fertile che ha le sue radici nel nostro inconscio e che deve essere coltivato.
L’immaginazione amplia i nostri orizzonti e permette di aprirci a mondi potenziali e dunque possibili. Il vero problema della crescita, come sanno i capitalisti, quelli veri, è la fiducia, ma proiettarsi in un mondo diverso per cogliere le opportunità di cambiamento che l’attuale crisi di valori e di prospettive sta elaborando, richiede non soltanto fiducia, ma anche immaginazione.
Cercar risposte dagli economisti non serve. Gli economisti arrivano sempre tardi e i più brillanti di loro, Sen, Stiglitz, Fitoussi scrivono libri, raccolgono premi compresi il Nobel, ma non vengono ascoltati.
Oggi viviamo nel solco di una crisi finanziaria cominciata con la vendita in molte parti del mondo di prodotti quali i subprime e i derivati che il famoso investitore Warren Buffet ha bollato “strumenti finanziari di distruzione di massa”. Siamo in piena pandemia, con una forbice sociale tra ricchi e poveri che continua ad allargarsi e la crisi climatica che miete vittime e infligge danni ingenti a tutte le economie. Il calcolo del PIL come indice di ricchezza, criticato ampiamente dagli economisti sopracitati, e da molti osservatori dell’OCSE e delle Nazioni Unite oggi non è più attendibile.
Mai come ora servirebbe un pensiero critico capace di mettere a fuoco le priorità e i cambiamenti da mettere in atto. La famosa interpretazione di Jared Diamond della fine della civiltà dell’Isola di Pasqua nel suo bestseller Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere appare sempre di più la metafora del nostro tempo incapace di cambiare rotta. La democrazia è l’unico vaccino contro la hubris degli umani. Sarà importante nei prossimi anni re-immaginare le nostre società democratiche e una nuova era non soltanto di diritti, ma anche del loro rovescio, ossia di responsabilità personali e collettive.
Il pensiero critico chiama in causa l’istruzione, il tipo di scuola che oggi viene stancamente propagato, gli obiettivi impliciti e mai realmente discussi e sui quali non pare esserci alcun dibattito. L’istruzione, l’educazione dei giovani, la formazione professionale non possono continuare ad ignorare l’elefante nella stanza: una società dei consumi proiettata quasi esclusivamente all’incremento degli stessi. Il critical thinking inteso come tecnica decisionale all’interno del problem solving aziendale è una derivazione misera della sua concezione originaria quale preparazione di cittadini (e non clienti) a un’esistenza equilibrata e autogestita. Il pensiero critico nasce negli anni 70 con pensatori quali Paulo Freire con la sua Pedagogia degli Oppressi e studiosi come Henry Giroux, con la sua pedagogia e politica della speranza. Pedagogia e critica sociale vanno mano nella mano, promuovono la centralità della differenza, dell’interdisciplinarietà, della creatività come anche l’esaltazione del ruolo dell’insegnante come intellettuale operante nella sfera pubblica. L’obiettivo centrale del libro Pedagogia degli Oppressi scritto nel 1968 era quello, secondo Donaldo Macedo, collega e collaboratore di Freire, di “risvegliare negli oppressi conoscenza, creatività e capacità critiche riflessive costanti: necessarie a svelare, demistificare e comprendere i rapporti di potere che causano l’emarginazione degli oppressi”.
Ma chi sono oggi gli oppressi nei nostri Paesi sviluppati se non i nuovi poveri, le vittime di false informazioni spesso fomentate ad arte come abbiamo potuto costatare tutti anche in questi giorni a proposito dei no vax, oppure, ancora più inquietante, delle campagne di informazioni distorte sui social media. Propaganda, manipolazione della verità ma nessuna possibilità di inclusione. Per quella generazione di intellettuali dell’America latina e di altre provenienze molti dei quali perseguitati e esuli, è imprescindibile il dialogo. A loro parere molti governi socialisti del mondo occidentale hanno tradito l’impegno verso la giustizia sociale, contribuendo ad allargare il divario e tollerando, soprattutto in Europa, una corruzione che ha reso più fragile la democrazia. La pedagogia degli oppressi non sfocia mai nell’ideologia, ma trova una via d’uscita in un’idea di libertà e in una pedagogia critica che secondo Stanley Aronowitz (2009) apre a una quantità di relazioni diverse, in cui il potere viene condiviso almeno tendenzialmente con coloro che abitano e formano il mondo sociale, trasformando la natura e se stessi.
Una visione fertile e multiculturale che potrà produrre molte altre narrazioni, immaginare mondi nuovi pur restando ancorati al mondo reale fatto di voci di donne e bambini, di minoranze e non ultimo di artisti e poeti. Un esempio per tutti: il poema epico Omeros di Derek Walcott, poeta del Nuovo Mondo che narra l’universo alla rovescia, ma in continuità con la tradizione classica occidentale, in onore dei pescatori neri Achille e Ettore dell’isola di Santa Lucia, e di una Elena, bellezza scolpita nell’ebano, che cammina altezzosa sulla riva del mare a piedi scalzi, i sandali di plastica ciondolanti da una mano. Una nuova epopea omerica animata dal respiro del vento e illuminata dalla luce magica dei Caraibi. Gli esametri ricordano quelli eroici della grecità, arricchiti dal melodico patois caraibico. Come una cascata di frutti maturi, le immagini si accumulano veloci una sull’altra ricche, pungenti, ibride.
L’articolo di Anna Detheridge è pubblicato nel numero di Vita gennaio 2022.