Au revoir, il progetto di arte partecipata di Ettore Favini curato da Connecting Cultures, è ora in Francia dove dal 23 febbraio è protagonista di un’esposizione  al Carré d’art contemporain di Nîmes. In seguito all’epidemia di Covid-19 lo spazio museale è stato chiuso, la mostra temporaneamente sospesa e poi riaperta il 2 giugno per rimanere visitabile dal pubblico fino al 31 ottobre 2020. Ecco  il racconto della mostra attraverso le parole della sua curatrice, Roberta Garieri.

Come è nata l’idea della mostra?
La nascita di Au revoir, nel suo insieme, ha attraversato diverse fasi, fatte d’incontri come anche di abbandoni, di arrivi e di partenze. Le distanze sono state anche molto lunghe – penso, per esempio, al periodo in cui ero in Cile per le mie ricerche di dottorato. Un’immagine che mi viene in mente, se penso a com’è nato Au revoir, a com’è cresciuto e si è definito nel tempo, è realmente quella di un viaggio in barca a vela. Sono appassionata, ma non un’esperta di barca a vela, anzi, spesso sono stata un elemento pericoloso nel gruppo, se ripenso alla mia ultima uscita a Marsiglia quest’inverno! Penso a una traversata perché per navigare e fare in modo che la barca avanzi, oltre a saper ascoltare il vento, prevedere l’imprevedibilità del mare, è necessario un vero e proprio lavoro e spirito collettivo. E questo spirito, traslato a Au revoir, si è costituito nel tempo. È stato tutto un crescendo. Nel 2017, quando con Ettore siamo venuti a conoscenza della collezione di tessuti di serge de Nîmes  (una stoffa in lana o lana e seta) – conservata presso il Musée du Vieux Nîmes, l’idea della mostra non era ancora nei nostri piani futuri. Dall’inizio avevamo percepito che la priorità era di scandagliare la storia di questo tessuto, i suoi percorsi nel tempo e nello spazio. La sua vita era fatta di connessioni e intrecci, così come la materia che lo costituisce: storie di uomini e di donne, di lavoro, d’incontri e di viaggi, di artigianato e altre stoffe – come il fustagno, di Chieri, o del più popolare, quello prodotto nella città di Genova, il jean o jeane, il denim, fino ad arrivare in Egitto, a Al-Fustat. Diversi tentativi, per portare avanti questo progetto e creare la condizione perfetta per lavorare insieme, a stretto contatto, sono stati delusi. Penso alla residenza presso la Camargo Foundation, a Cassis, così come al bando promosso da Mécènes du Sud.
Nonostante questo, abbiamo continuato a ridefinire il nostro orizzonte, decidendo di presentare il progetto direttamente al direttore del Museo Carré d’art contemporain di Nîmes, Jean-Marc Prevost. Il progetto ha issato le vele – per restare nella metafora – e ha iniziato a salpare quando anche Connecting Cultures, vale a dire Anna Detheridge, Laura Riva e Chiara Lattuada, sono salite a bordo, conferendo al progetto la dimensione partecipativa e interdisciplinare necessaria. Successiva è stata poi la vincita del bando della 6a edizione di “Italian Council”. A questo seguono i viaggi che Ettore ha realizzato, il tempo di creazione trascorso nel suo atelier e a contatto con diversi artigiani italiani, i laboratori tessili a Milano come a Chieri e, infine, la mostra a Nîmes presso il Carré d’art, come termine ultimo di questo percorso condiviso che si apre al pubblico.
Un altro passaggio necessario è il bellissimo libro, editato da Connecting Cultures, che ripercorre tutte le fasi del progetto Au revoir, collegate insieme dalla scrittura, sia essa teorica, testimoniale o poetica.

Aveva già collaborato con Ettore Favini?
Conosco Ettore Favini dai miei studi a Milano in accademia (NABA), ma il primo vero incontro che ci ha fatto conoscere e che mi ha avvicinato al suo lavoro è stato nel 2017, durante una sua residenza nel sud della Francia. Ero andata a trovare il mio amico Stefano Serretta, amico anche di Ettore Favini, e anche lui in residenza. Da quel momento, il nostro dialogo ha preso forma e Au revoir è il nostro primo progetto insieme.

Quali sono i temi della mostra Au Revoir e quali sono stati gli aspetti più sfidanti nella curatela di un progetto così particolare?
Parto dalla seconda domanda. La sfida più ardua è stata per me vedere in che modo, nell’ambito dell’attuale crisi migratoria – che è globale – si possa attraverso la creazione artistica narrare, riflettere, mettere in discussione e visualizzare le sfide sociali, economiche e politiche nascoste dietro questa situazione, senza cadere nella mera strumentalizzazione.
Oltre a questo, un altro aspetto che mi ha molto interrogata è stato il ruolo rivestito dall’istituzione museale. Recentemente ho partecipato ad un incontro a Madrid, il cui tema era appunto la relazione tra museo e democrazia nell’Europa mediterranea. Dai vari discorsi e dibattiti affrontati, quello che mi è rimasto impresso, e che condivido pienamente, è che il museo non può e non deve essere uno spazio neutro, dato l’impatto che ha sulla nostra vita attraverso la rappresentazione e la messa in circolazione di discorsi e saperi. In questo momento preciso è urgente che il museo, così come tutto il sistema dell’arte, sia ripensato, reinterrogato alla luce della mutazione che stiamo vivendo. In questo senso, m’interessa molto l’idea di “museo situato” proposta dal direttore del Museo Reina Sofia, Manuel Borja-Villel che, in poche parole difende un museo che dialoga con quello che vive la società nel qui ed ora. La crisi attuale dovrà servire a ripensare proprio da qui, dal circuito in cui agiamo e dalle modalità di cui ci serviamo per attuare nella società. Mi viene in mente un pensiero del poeta Édouard Glissant : “Agisci nel tuo luogo, pensa con il mondo”.
Passando alla prima domanda, forse non parlerei di temi. Questa ricerca che impegna Ettore già da qualche anno riflette su concetti quali l’identità, l’ibridazione, il nomadismo del pensiero, l’atto del decentrare saperi e conoscenze, come anche punti di osservazione sul mondo, la permeabilità dei confini fisici e identitari. E questo Ettore lo fa attraverso la ricerca teorica, l’incontro con l’altro, rompendo le frontiere tra arte e vita, ma anche e soprattutto attraverso una sua rielaborazione simbolica, formale, che è poi la sua poiesis. In questa mostra, il Mediterraneo diventa il punto di osservazione privilegiato, la piattaforma da cui ritracciare la storia passata e presente, da cui condensare la nostra memoria collettiva.
Il viaggio che Ettore ha intrapreso lo impegnerà per i prossimi anni, essendo mosso da questo desiderio di esplorare l’arte della tessitura nei paesi che affacciano sul Mar Mediterraneo. Un progetto unico, di una vita. Quella di Chieri/Genova-Il Cairo-Nîmes è stata dunque una triplice tappa sulle rotte di un tessuto che è all’origine di quello che universalmente conosciamo come “jeans”.

Roberta Garieri Au revoir

Allestimento della mostra Au Revoir, Carré d’art contemporain di Nîmes, ph. ©Cédrick Eymenier

Come è strutturato il progetto espositivo e che tipo di esperienza è proposta al pubblico?
Nella mostra, la disposizione delle quattro sale su una pianta orizzontale, divise le une dalle altre e collegate da un piccolo corridoio, permette al visitatore di attraversare e leggere la mostra non secondo una visione d’insieme, ma tramite un percorso a fasi successive.
Oltrepassato il tramezzo blu, si ha come l’impressione di salire su una barca. Le luci bianche illuminano le pareti e le opere sono come degli oblò che aprono sul mare. L’allestimento è delicato, non invasivo. Nella prima sala le due opere che aprono la mostra sono la chiave di lettura dell’intero progetto. L’una, Mer de plusieurs noms (2019), nel riprendere la formula utilizzata dallo scrittore Prerag Matvejević per riferirsi al nostro mare non solo come spazio geografico, indica l’impossibilità di raccontare il Mediterraneo. Questa impossibilità è rappresentata dalla ripetizione, la sovrapposizione delle sedici carte più importanti del Mediterraneo, cucite a mano da Doaa, Laila, Nagwa e Thamel durante un laboratorio partecipato e organizzato da Connecting Cultures. L’altra, Routes (2019), ritraccia con ago e filo le traiettorie del commercio del cotone nel Mediterraneo. Esse rivelano le connessioni tra Nord e Sud e come il continente africano sia da sempre un crocevia di scambi e prestiti.
La seconda sala esplora l’idea del Mediterraneo come un universo a sé e invita a cambiare il punto di osservazione consueto: dal mare alla terra e non viceversa. Med (2020), la scultura in bronzo, è al centro e apre alle sedici cianotipie su tela di fustagno, Mer fermée (2019). Disposte sulla parete centrale, esse rappresentano l’evoluzione della cartografia mediterranea dall’antica Grecia fino ai giorni nostri.
La terza sala apre alla questione dei confini e della mobilità. Il titolo della tela in denim, Mare Nostrum (2019), rivela un paradosso: usando una designazione riferita a un passato pacificato, quello dell’era romana, in realtà crea un corto circuito con le nuove leggi sui confini nell’era attuale.
Il percorso termina nella quarta sala con la vela al centro. Latina (2020) – dal nome della vela più antica nella storia della navigazione nel Mediterraneo – rappresenta una metafora del viaggio in divenire in un mare che è un insieme di mari, paesaggi e civiltà, secondo la bella definizione dello storico Fernand Braudel. Questa vela è costituita da pezzi di tessuto eterogenei. Essi racchiudono dei frammenti di vita, di singole memorie donate simbolicamente all’artista da Doaa, Dalia, Faiza, Hala, Ines, Laila, Medhat, Nagwa, Sayeda, Sanaa, Shimaa, Tahia. Intorno alla vela, sulle pareti, vi sono le fotografie dei collage. La serie si chiama COL-NEM Allegory (2020) e riunisce oggetti custoditi dall’artista e che si riferiscono alla storia delle relazioni tra Europa ed Egitto dal 31 a.C. al XIX secolo.
Infine, la mostra è attraversata da piccole navi realizzate in bronzo, Au revoir (2020). Un saluto che, come ci dice Ettore “incarna la speranza di rivedersi presto, ma anche il suo contrario, cioè la possibilità di non rivedersi mai più”.

Roberta Garieri Au revoir

Allestimento della mostra Au Revoir, Carré d’art contemporain di Nîmes, ph. © Cédrick Eymenier

Quali sono gli obiettivi della curatela di una mostra come Au revoir?
Che la mostra, una volta attraversata, continui a interrogare su come anche la vita di un tessuto possa ritracciare nuove configurazioni sulla storia del mondo e sulla nostra memoria collettiva, rivelare le gerarchie di potere che dominano ancora oggi il nostro presente – e questo su un piano individuale e geopolitico –, in poche parole continuare a interrogare la storia che non è mai data per scontata.
Date le circostanze attuali, la mostra, che avrebbe dovuto inaugurare il 2 aprile, è chiusa al pubblico. Questi obiettivi sono dunque, per adesso, impossibili da attendere.
Penso che possiamo lasciare una porta aperta all’immaginazione e spero che le mie parole vi abbiano fatto viaggiare, almeno per un breve momento, con Au revoir.


Roberta Garieri Au revoirRoberta Garieri
è curatrice e ricercatrice in storia e critica delle arti (Università di Rennes 2, Francia). La sua tesi riguarda le circolazioni artistiche trans-atlantiche e trans-americane nel XX secolo e si rivolge ai problemi derivanti dai trasferts culturali globalizzati, cosi come al rapporto tra la produzione culturale e il contesto sociale e politico.
Collabora con Hot Potatoes. Art, Politics, Exhibition Conditions, Critique d’art. Actualité internationale de la littérature critique sur l’art contemporain , AWARE, Archive of Women Artists e con le residenze d’artista Dos Mares (Marsiglia).